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Amalfi

Amalfi trova le origini del suo nome nella mitologia: secondo la leggenda, infatti, il luogo prende il nome dalla ninfa Amalfi, amata da Ercole, sepolta proprio in questa terra per volontà degli dei. Lo storico Arrigo Bremmano, che nelle sue “Dissertationes de Republica Amalphitana” fa risalire la nascita della città al IV secolo d.C., narra che Costantino I avrebbe convinto alcuni nobili Romani a trasferirsi a Costantinopoli, da lui da poco riedificata. Costoro si imbarcarono a Brindisi ma, a causa di una tempesta, furono costretti a trovare riparo in Dalmazia, nel porto di Ragusa, l’odierna Dubrovnik. Tornati in Puglia, fondarono Melfi in Lucania e in seguito, partiti da qui, Amalfi, sulla costa tra Sorrento e Salerno: Amalfi sarebbe in realtà l’esito di “a Melphes”, attestato in questa forma nel senso di “(venuti) da Melfi”.
Tuttora il dibattito sull’origine del toponimo è aperto. L’Alessio, studioso di toponomastica, lo fa derivare dal radicale prelatino melp o melf,  che significa “colle” o “altura”: termine molto ricorrente nella toponomastica meridionale, a cui risalirebbero Melfi, Molfetta, Molpa, e Amalfi. La trasformazione in Amalfi sarebbe poi avvenuta attraverso una serie di passaggi.

L’Alessio sposta l’origine del toponimo – e quindi l’esistenza della città – a un’età precedente a quella dei Romani, cui normalmente la si fa risalire: egli parla infatti di navigatori di origine egea che popolavano le coste del Salernitano ben prima della fondazione delle città della Magna Grecia.
Chi vede oggi per la prima volta questa pittoresca cittadina incastonata tra la montagna e il mare, stenterà a credere di trovarsi nella stessa città che, per almeno due secoli nel Medioevo, fu uno dei centri commerciali più importanti del Mediterraneo. Questo passato di Amalfi, per molti versi avvolto nella leggenda, è però un’importantissima realtà storica, e si dipana nel tempo in cui religiosità, cultura ed eventi storici erano intimamente e strettamente legati.

(Villa Romana (Minori) – I Sec.)

Sicuramente abitata dai Romani, Amalfi compare nei documenti storici solo poco prima del  600, al tempo delle prime invasioni longobarde, come castrum – fortezza adibita alla difesa – del Ducato di Napoli, a quel tempo appartenente a Bisanzio, capitale dell’Impero romano d’Oriente. Dal momento in cui l’esistenza di Amalfi comincia ad essere storicamente documentata, si scopre che la città godeva di un rapporto particolare con Bisanzio, privilegio che proveniva dall’abilità degli amalfitani nel commercio marittimo. Esisteva sicuramente una colonia di amalfitani a Bisanzio, come testimoniano documenti in cui si parla di un monaco traduttore, Giovanni Amalfitano, che lì viveva, presso la Chiesa di Sant’Irene degli amalfitani, intorno al IX secolo.

La vocazione marittima della città, che costituì la sua fortuna in tempi ormai leggendari, trova conferma anche nell’attribuzione a un marinaio amalfitano, Flavio Gioia, della paternità del perfezionamento della bussola, ancora oggi uno dei più preziosi strumenti di orientamento. Questa vocazione, unita a una grande capacità diplomatica, permetterà agli amalfitani di navigare tranquillamente nel Mediterraneo, dopo aver stabilito rapporti di pace con tutti i popoli limitrofi, Saraceni compresi: a questa abilità dovettero la loro plurisecolare autonomia

Nel IX secolo Amalfi si staccò dal Ducato di Napoli costituendosi in stato autonomo, in un periodo in cui un regno si sbriciolava e un altro si formava. Amalfi suscitava le mire dei principi longobardi di Salerno, che guardavano con cupidigia questa ricca città esperta in traffici e provvista di una flotta: basti ricordare l’incursione ordinata da Sicardo nell’830 allo scopo di deportare a Salerno gli amalfitani esperti di commercio. La città seppe comunque risollevarsi da questa aggressione, resistendo poi per oltre due secoli alle mai sopite mire espansionistiche longobarde.

Nell’ 839 tutti i piccoli centri della costa si stringono intorno alla città, diventata ormai potente: Amalfi è la capitale del piccolo stato impropriamente definito dagli storici repubblica, ma in realtà retto prima da un comites, conte, eletto dai rappresentanti delle famiglie amalfitane più nobili, e in seguito da un dux, duca o doge. In questo momento storico i confini di Amalfi si estendono a tutto il territorio che va da Cetara a Positano, compresa l’isola di Capri e Li Galli, e si spingono verso l’interno, oltre i monti Lattari, fino a Gragnano, attualmente in provincia di Napoli. Ai piccoli centri sono affidati compiti corrispondenti alle attitudini degli abitanti. È il momento della massima espansione, durante il quale si avvia la fitta rete di rapporti diplomatici. La rivalità con le altre tre città marinare, Pisa, Genova e Venezia è piuttosto uno sprone che un pericolo per la città, che possiede anche una zecca e batte una propria moneta, il tarì amalfitano, a ulteriore dimostrazione del potere economico che essa aveva raggiunto in quegli anni sui mercati degli altri paesi.

Il tarì o tareno amalfitano (nome derivato dall’arabo dirhem, denaro) costituisce un’importante prova dei rapporti commerciali di Amalfi e dell’importanza del suo nome sui mercati di altri paesi. Nella nostra epoca, durante lavori di ordinaria manutenzione del centro storico di Amalfi, furono ritrovate alcune di queste monete, oggi conservate presso l’Archivio comunale: coniate in oro, recano delle scritte sia in caratteri latini che arabi, più precisamente cufici; su alcune è apposta anche la scritta S. Andreas. Molto simili ai tarì siciliani, esse costituiscono una ulteriore conferma del prestigio economico raggiunto da Amalfi.

 

(Tabule de Amalpha)

Il periodo più florido è comunque quello che va dal 966 al 1004, quando Amalfi è già divenuta ducato sotto Mansone II: il commercio e il traffico marittimo godono di una grande floridezza, e i mercanti amalfitani hanno proprie colonie nelle città più importanti del Mediterraneo, come Antiochia, Cipro, Bisanzio e Alessandria d’Egitto. È un centro cosmopolita aperto sul Mediterraneo, cui non costituiscono ostacolo le differenze di religione: i suoi rapporti commerciali coi Saraceni le costeranno addirittura la scomunica da parte di papa Giovanni VIII. All’età ducale risale il codice di diritto marittimo noto come “Tavola amalfitana”. Ma il clima politico intorno alla città non è dei più tranquilli, e soprattutto non sono ancora sopite le mire longobarde su Amalfi. Nel 1039 Guaimario V, principe di Salerno, riesce a sottometterla per un breve periodo.

È l’inizio della decadenza di Amalfi: nel 1071 la conquista di Bari da parte dei Normanni segna la fine della presenza bizantina nell’Italia meridionale l’affermarsi della nuova potenza normanna. Costretta a chiedere aiuto a Roberto il Guiscardo per difendersi da attacchi sempre più pressanti, Amalfi conserva, almeno  nominalmente, la propria autonomia, ma è costretta a pagare tributi e servizi al principe normanno. Travagliata anche da lotte intestine, la città comincia a perdere gran parte della sua forza e del suo splendore finché, nel 1131, sotto Ruggiero II, diviene parte integrante del Regno normanno, struttura unitaria e accentratrice in cui non c’è più posto per autonomie locali e privilegi.
Ruggiero II cerca ancora di proteggere, in ogni caso, le attività mercantili e marinare degli amalfitani, che continuano a rappresentare un aspetto importante dell’economia del Regno.

La potenza marittima di Amalfi è giunta ormai al tramonto, altre città la sostituiscono sui mari, VeneziaLa Ferriera – T. Ender)

e Genova soprattutto, mentre la politica antibizantina e antimusulmana dei Normanni le taglia completamente gli antichi legami commerciali. La rete di traffici si restringe oramai soltanto ai porti del Sud della penisola.
Nel corso del XIII secolo, nel momento in cui la dominazione aragonese si sostituisce al governo angioino nell’Italia meridionale arrivano nel Mediterraneo gli agguerriti mercanti catalani, destinata a fare una concorrenza spietata a quel che resta della flotta mercantile amalfitana.
Amalfi non è più la potenza di un tempo, ma nonostante questo non si arrende. Possiede ancora i cantieri navali in cui erano costruite le navi del Ducato, e continua a costruire imbarcazioni; commercia in cereali con gli altri porti dell’Italia meridionale e avvia un’attività bancaria abbastanza florida; impianta inoltre fiorenti industrie tessili e, fra le prime in Italia, industrie per la macerazione degli stracci e la fabbricazione della carta: attività, questa, di notevole importanza se si pensa che fino all’Ottocento si contavano nella Valle dei Mulini ben quattordici fabbriche in funzione. Ancora oggi qualcuna è in attività e produce una carta molto bella e ricercata. 
La Tempesta – G. Gigante

Ma ancora una volta gli eventi congiurano contro la città. Nel 1343 una tempesta violentissima – di cui parla in una lettera anche il Petrarca, allora abitante a Napoli – colpisce l’intero litorale da Napoli a Salerno, distruggendo tutta la flotta mercantile amalfitana e gli stessi arsenali: il danno è tale che non sarà possibile porvi rimedio, nonostante la sollecitudine della regina Giovanna che riduce agli amalfitani i tributi onde permettere loro di risollevarsi.

Nel 1398 la città diviene feudo dei Sanseverino, per passare poi ai Colonna e agli Orsini e infine ai (G. Gigante)

Piccolomini, sotto la cui podestà rimane fino al 1582. È in quest’epoca che vengono introdotti in Amalfi gli “ngiegni” (congegni) per la lavorazione della pasta che diventerà, nel corso del tempo, una delle risorse principali dell’economia della Campania.
Passati i secoli gloriosi di Amalfi medioevale, la storia della città e degli altri insediamenti della penisola amalfitana comincia a essere caratterizzata da una grande scarsità demografica, da un isolamento pressoché totale dall’entroterra e da incursioni piratesche dal mare e di briganti da terra, queste ultime soprattutto nel corso del XIX secolo.

 

(La Valle dei Mulini – K. Blechen)

La costa amalfitana conosce un isolamento e una povertà crescenti e l’economia diviene di sussistenza. Col declino dei commerci legati alle attività marinare si incrementa l’agricoltura sfruttando al massimo il terreno con colture specializzate come  la vite e gli agrumi.
La mancanza di strade di collegamento tra l’antica potenza marinara e le altre città campane rende difficili anche altre attività industriali che pure avevano avuto un loro peso nell’economia amalfitana: l’industria tessile, la cartaria, la navale, la molitoria, la lavorazione del cotto non sono mai riuscite veramente a decollare per problemi di vario ordine. Uno di questi consiste nella difficoltà dell’approvvigionamento energetico che vincolava la localizzazione delle attività alla vicinanza di corsi d’acqua, boschi e così via. Nel Settecento si parla di Amalfi come di una città quasi disabitata, caratterizzata da un esodo crescente di famiglie nobili verso la capitale, anche se essa restava, comunque, “città regia”. Nello stesso tempo proliferano minuscole attività artigianali legate alle antiche ma anche alle nuove forme di economia: i “centrellari” – costruttori di chiodi – a Pogerola, i corallari, gli orafi, i mastri fabbri ed i calafati, legati alle fasi della costruzione di navi.
Alla vigilia del XX secolo il panorama economico amalfitano è stagnante, mentre il mercato del lavoro soffre di una cronica arretratezza. La situazione non conosce variazioni fino a quando il dramma dell’emigrazione finisce di decimare le popolazioni locali.

 (Veduta di Amalfi – P. Scoppetta)

Ma la svolta avviene all’inizio del ‘900 quando Amalfi viene riscoperta quale ricercata  meta di soggiorno e di studio di numerosi viaggiatori e artisti stranieri che contribuiscono a diffonderne la storia e il nome. La città grazie alla sempre più cospicua presenza di visitatori vedrà risollevarsi le sorti della propria economia e ad essa verrà restituita una posizione di primo piano in ambito internazionale.